venerdì , 29 Marzo 2024

Aniello Nappi: il Giudice sulla responsabilità penale del professionista in ambito sanitario

Il Giudice Aniello Nappi ci informa:

la responsabilità penale del professionista in ambito sanitario.
Relazione all’Accademia dei Lincei.
Roma, Palazzo Corsini, luglio 2009.

Confesso subito che le prestazioni dei giuristi in questa opera di traduzione non sono esaltanti e devo dire che, se fossi un medico, vorrei qualche certezza, desiderando sapere cosa mi espone e cosa non, a responsabilità. Purtroppo c’è invece su questi temi una grande incertezza, se non confusione.
Innanzitutto c’è incertezza sulla funzione del consenso informato. Esso è la manifestazione della libertà di cura, il riconoscimento al paziente del diritto di rifiutare la cura, anche quando si tratti di una cura certamente favorevole. Benché si tratti di una terapia che avrà certamente un esito fausto, il paziente ha il diritto di rifiutarla.
Qual è allora la funzione di questo consenso ai fini della responsabilità del medico? Qui cominciano i problemi, perché i giuristi, non solo pratici ma anche teorici, sono divisi. Secondo alcuni l’attività medica è un’attività comunque non lesiva, in quanto il medico, anche il chirurgo che provoca delle alterazioni anatomiche, rimuove una malattia, non la provoca; e quindi è un’attività di per sé lecita.
Secondo altri, invece, l’attività medica è un’attività lesiva, quando comporti alterazioni anatomiche; ma è un’attività lesiva che risulta giustificata dal consenso del paziente.

Recentemente su questo tema sono intervenute le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione, che hanno esibito un apparato concettuale molto ambizioso, disquisendo forse inutilmente finanche del concetto di malattia, e hanno preso posizione in favore di coloro che sostengono la liceità in sé dell’attività medica.
Nonostante un apparato concettuale tanto articolato, tuttavia, le Sezioni Unite hanno risolto in realtà solo un caso particolare, affermando che, quando l’intervento sia fausto, il medico non è punibile, anche se sia intervenuto in mancanza del previo consenso.

E’ vero che la mancanza del consenso comporta una violazione del diritto del paziente all’autodeterminazione, ha precisato la corte, ma la violazione di questo diritto del paziente non è riconducibile al reato di violenza privata e quindi non è penalmente rilevante.

Faccio notare che in Parlamento, proprio dopo questa pronuncia della Corte di cassazione, è stata depositata una proposta di legge della senatrice Bianconi, che prevede come illecito disciplinare del medico l’intervento con esito fausto effettuato senza previo consenso informato. Sicché rimarrebbe una valutazione di illiceità del comportamento del medico, quando operi senza il previo consenso, ma soltanto per la violazione del diritto del paziente all’autodeterminazione; e non, come invece sostiene parte della dottrina penalistica italiana, per le alterazioni anatomiche provocategli.
Secondo la maggioranza degli studiosi, peraltro, le alterazioni anatomiche subite dal paziente sarebbero punibili a titolo di lesioni personali solo quando sia infausto l’esito; ma indipendentemente dalla violazione delle cosiddette leges artis, le regole tecniche dell’intervento. Sicché la violazione del diritto all’autodeterminazione comporterebbe una responsabilità per lesioni personali, anche se l’intervento infausto fosse stato eseguito con il rispetto di tutte le regole e i protocolli del caso.

ippocrate ddg

Come dicevo, l’incertezza è tanta; e per semplificare l’esposizione, è dunque necessario schematizzare le possibili combinazioni delle diverse variabili.
Occorre innanzitutto distingue tra esito fausto ed esito infausto dell’intervento con quattro evenienze:

1) quando l’esito dell’intervento è fausto, ovviamente non c’è nessun problema di liceità, se c’è stato il consenso del paziente.

2) Le Sezioni Unite Penali hanno escluso che sia configurabile un qualsiasi reato, anche se non c’è stato il consenso; ma, come s’è detto, c’è la proposta di legge della Senatrice Bianconi, che prevede in questo caso un illecito disciplinare.
Più significativi sono i casi di esito infausto:

3) se c’è stato il previo consenso e il medico ha rispettato le regole tecniche della professione, non c’è responsabilità. In questo caso una responsabilità professionale del medico potrebbe aversi solo per una violazione delle “leges artis”, delle regole della tecnica professionale.

4) Che cosa avviene se un esito infausto consegue a un intervento eseguito senza previo consenso del paziente?
Secondo la dottrina e la giurisprudenza ancora prevalenti, in questo caso il medico dovrebbe rispondere di lesioni colpose anche se ha rispettato le “leges artis”.
Tuttavia, traendo conseguenze coerenti con le premesse poste dalla recente sentenza delle Sezioni unite penali, si dovrebbe invece escludere in questo caso che il medico sia punibile per lesioni colpose: perché ha rispettato le regole tecniche dell’intervento e quindi non ha cagionato lesioni per colpa, per violazione di regole cautelari. L’unico diritto, l’unico bene che il medico ha leso, intervenendo senza il previo consenso, è la libertà di autodeterminazione del paziente. Ma c’è chi sostiene che in questo caso il medico dovrebbe rispondere addirittura a titolo di dolo delle lesioni, a titolo di omicidio preterintenzionale per l’eventuale morte del paziente.

Su questo punto, dunque, c’è ancora incertezza, perché le Sezioni unite penali non hanno preso chiaramente posizione al riguardo, essendosi pronunciate solo sul caso portato all’esame della Corte: il caso di un medico che nel corso di un intervento, al quale era stato prestato il consenso, si accorga dell’esigenza di un intervento diverso, non urgente e quindi non tale da esimerlo dall’obbligo di assumere il previo consenso del paziente, e ciò nondimeno pratichi egualmente l’intervento non consentito, con esito fausto.

La Corte ha affermato che il medico non è punibile né per le lesioni né per la violazione del diritto di autodeterminazione del paziente, quando si abbia un esito fausto in mancanza di consenso informato. Non ha chiarito però la Corte cosa sarebbe accaduto se l’esito fosse stato infausto nonostante il rispetto delle leges artis; eppure era questa una delle domande cruciali alle quali si attendeva una risposta.

Nel caso in cui l’esito infausto si accompagni, invece, a una violazione delle “leges artis” non c’è dubbio che debba rispondere il medico delle lesioni provocate al paziente. Rimane il problema della possibilità di rispondere a titolo penale anche per la violazione dell’autodeterminazione. Le Sezioni Unite sembrerebbero averlo escluso. Ma non potrebbe certamente escludersi una responsabilità per violenza privata nel caso, forse solo teorico, del medico che imponga il letto di contenzione al paziente per sottoporlo, per esempio, all’amputazione di un arto.

In conclusione una ragionevole soluzione del problema dovrebbe articolarsi in due proposizioni:
a) il trattamento sanitario arbitrario, eseguito cioè senza previo consenso, è riprovevole in quanto atto di sopraffazione e di violazione della libertà di autodeterminazione del paziente, non per il danno che solo eventualmente possa arrecargli; e rimane riprovevole anche se ne sia fausto l’esito, perché l’obbligo del previo consenso deve appunto preesistere all’intervento, non può dipendere dal suo esito;
b) la responsabilità a titolo di colpa è ipotizzabile solo per le lesioni o la morte eventualmente dipese dalla violazione delle regole dell’arte medica; non pare possa sostenersi che l’arbitrarietà dell’intervento legittimi di per sé una responsabilità del medico anche per morte o lesioni colpose, indipendentemente dalla violazione di qualsiasi protocollo sanitario, perché l’obbligo di informazione del paziente è destinato a garantirne la libertà di scelta, non l’incolumità. Tuttavia entrambe queste proposizioni sono tuttora controverse.

L’altro aspetto della responsabilità professionale del medico che è estremamente controverso e carico di dubbi per chi pratica questa professione è quello dei presupposti della responsabilità per l’esito infausto.
In realtà cè stata una svolta nella giurisprudenza risale ad un intervento della Corte Costituzionale, la sentenza n. 166 del 1973, perché – almeno dal punto di vista penalistico – fino a quella sentenza il problema era stato tutto centrato sulla colpa del medico. Si riteneva che si applicasse anche in campo penalistico l’articolo 2236 c.c., e si riconosceva sempre la particolare difficoltà a qualsiasi intervento del medico, con la conseguente applicazione garantita del parametro della colpa grave, che portava all’impunità di fatto.
Intervenne la Corte Costituzionale con la sentenza n. 166 del 1973 e, pur non prendendo esplicitamente posizione sull’applicabilità o meno in sede penale dell’articolo 2236 c.c., oggi esclusa dalla giurisprudenza penale, precisò che l’esigenza della colpa grave per l’elevata difficoltà dell’intervento si pone quando la regola cautelare violata è una regola di perizia, cioè quando il medico è stato ignorante; non quando ha mancato di diligenza, per esempio lasciando una pinza nell’addome del paziente.
Quando è in discussione la diligenza o la prudenza del medico, la perizia e l’estrema difficoltà dell’intervento non rilevano, sancì la Corte costituzionale. E quella sentenza segnò appunto una svolta nella giurisprudenza penale, perché ridusse ad ambiti marginali la rilevanza della colpa grave e dell’estrema difficoltà dell’intervento.
Questa evoluzione ha determinato un trasferimento dell’attenzione dalla colpa al nesso causale: si è verificato un ribaltamento dall’impunità a un eccesso di severità nei confronti dei medici.
Infatti frequentemente la colpa del medico è una colpa per omissione, e in dottrina come in giurisprudenza, si è sostenuto per lungo tempo che la causalità omissiva ha uno statuto diverso, uno statuto probatorio meno rigoroso dalla causalità commissiva. Si riteneva che, poiché l’omissione è un concetto normativo, una costruzione mentale, non ci possa essere un rapporto causale vero, reale, e quindi la prova possa essere più approssimativa.
Questo orientamento è stato spazzato via nel 2002 da un’importante sentenza delle Sezioni unite penali della Corte di cassazione, la celebre sentenza Franzese, che riguardava ancora una volta un caso di responsabilità medica. Questa ha riconosciuto che la responsabilità omissiva non si distingue dalla responsabilità commissiva quanto al nesso causale, che va accertato secondo il criterio della “condicio sine qua non”, perché la causalità si può predicare solo di una condizione che sia necessaria per il prodursi dell’evento.
I problemi tuttavia si sono forse aggravati dal punto di vista della comprensione per chi è destinatario di queste pronunce, perché, contrariamente a quanto pure si continua a ripetere, la teoria condizionalistica, la teoria della “condicio sine qua non”, non è una delle tante teorie della causalità.

Gustav Klimt – Nuda veritas (part.)

Questo problema della causalità mi ricorda in realtà il problema della verità, che per secoli è stato discusso, fino a quando un celebre

logico polacco della prima metà del secolo scorso, Alfred Tarski (Varsavia 1901 – Berkleley 1983), chiarì che una cosa è definire la verità, stabilire quando usiamo correttamente i termini vero e falso, e altra cosa indicare come si accertano i fatti, come si accerta la verità.

La stessa cosa avviene per la causalità.
La teoria condizionalistica ci spiega solo qual è l’uso corretto del concetto di causa, ed è quindi l’unica definizione logica della causalità. Il problema dell’accertamento del nesso causale è un problema di prova del tutto identico a qualsiasi altro accertamento giudiziale.
La teoria condizionalistica è in realtà una teoria tautologica, perché ci dice solo che la causa è qualsiasi condizione necessaria dell’evento. Se una condizione è necessaria, ne consegue che non ve ne sono altre sufficienti da sole a causare l’evento; e, viceversa, se una condizione è sufficiente a causare un evento, ne consegue che non ve ne sono altre necessarie. Sicché ciascuna condizione necessaria, anche se da sola non è sufficiente a produrre l’evento, ne costituisce comunque la causa.
Non è solo un gioco di parole, perché tutte le teorie necessariamente vere si limitano a spiegare l’uso delle nostre categorie mentali. Ne risulta dunque la certezza che un fatto non può essere qualificato causa di un altro, se non ne è condizione necessaria, se non si può affermare che senza l’uno non si sarebbe verificato l’altro fatto.

Rimane da stabilire, però, come si accerta il nesso di causalità. Ed è qui che si riscontrano incertezze e confusioni.

Prendiamo ad esempio la sentenza n. 576 del 2008 delle Sezioni Unite Civili che ha riproposto teoriche nordamericane, importate grazie alla divulgazione fattane dal compianto professor Federico Stella. Secondo questa sentenza per la responsabilità penale il nesso di causalità va accertato al di là di ogni ragionevole dubbio, come aveva già affermato la sentenza Franzese, mentre in sede civile, ci si può invece accontentare del criterio del “più probabile che non”.
Tuttavia le Sezioni Unite Civili hanno ribadito che l’unica definizione corretta della causalità è quella della “condicio sine qua non”. Sicché, perché si possa dire che un fatto è stato causa di un altro, occorre poter dire che quel fatto è stato condizione necessaria dell’evento, non una condizione solo possibile.

Cosa significa dire allora che l’accertamento del nesso causale può essere condotto con il criterio “più probabile che non”? Non si finisce per negare così l’esigenza che ci sia un rapporto di condizionalità necessaria tra il fatto causa “A” e il fatto evento “B”?
Se posso parlare di causalità solo se c’è un rapporto di condizionalità necessaria tra A e B, quale accertamento può avvenire in termini di mera probabilità?
Quando si discute di responsabilità, occorre accertare tre fatti:
il fatto causante,
il fatto causato e
la legge di copertura, cioè il criterio di inferenza, la legge naturalistica che mi consente di dire che B è l’effetto di A.

Il problema dell’accertamento solo probabilistico, anziché al di là di ogni ragionevole dubbio, può riguardare dunque l’esistenza della legge di copertura, non può riguardare il contenuto di questa legge, che deve operare sempre in termini di condizionalità necessaria, se si vuole parlare correttamente di causalità.

Se si parla di causalità, e le Sezioni Unite Civili hanno ribadito che si può parlare di causalità solo se c’è un rapporto di condizionalità necessaria tra fatto causante e fatto causato, qual è il minor grado di certezza che posso avere? È quello sull’accertamento della legge di copertura, ma non quello sul rapporto che ci deve essere sempre tra fatto causante e fatto causato.

Vedete come può esserci confusione tra problema della definizione e problema dell’accertamento della causalità. E in realtà nel caso esaminato dalle Sezioni unite civili si trattava della responsabilità del Ministero della Sanità per l’impiego nelle trasfusioni di sangue infetto da HIV; al Ministero veniva addebitato di non aver fatto nulla di ciò che la legge gli imponeva di fare per verificare se il sangue fosse infetto; e quindi in quel caso probabilmente non c’era problema di causalità, ma semmai problema di colpa, come vedremo.

D’altra parte, come si accerta, come si prova la cosiddetta legge di copertura?
Gli scienziati naturali sanno che queste leggi si fondano per induzione: il ripetersi costante di certi fenomeni ci fa supporre che essi siano manifestazione di una legge naturale.
Ma il giudice come può provare una legge di copertura in sede giudiziaria? Come può provarla un giudice che deve essere utilizzatore, non creatore di leggi di copertura, perché non può inventare lui leggi di copertura?
In realtà negli Stati Uniti, dai quali abbiamo importato la questione, si pone in termini seri il problema della prova anche della legge di copertura, per il fenomeno della cosiddetta “scienza spazzatura”, perché dinanzi alle giurie popolari vengono sentiti sedicenti scienziati, addotti dalle parti come testimoni tecnici. E allora si può certo porre un problema di prova della legge di copertura, con la distinzione tra prova “oltre ogni ragionevole dubbio”, in sede penale, ovvero “più probabile che non”, in sede civile.
D’altro canto la ricostruzione ex post della causa di un evento non presuppone affatto un modello deterministico di spiegazione causale e rimane possibile, benché “l’età dell’innocenza”, ingenuamente fiduciosa in una teoria causale deterministica, sia rimasta travolta “dalla rivoluzione probabilistica”, come dice l’epistemologo Paolo Garbolino.

Poniamo ad esempio che taluno cada da un terrazzo privo di protezioni perché spaventato dal colpo di fucile di un cacciatore. Non esiste alcuna legge scientifica o massima di esperienza che colleghi necessariamente la caduta allo sparo. Eppure nessuno dubiterebbe della possibilità di spiegare la caduta come conseguenza dello sparo, salvo poi stabilire se l’evento fosse prevedibile, e quindi giuridicamente rilevante, o non sia stato addirittura preordinato.

La scienza infatti utilizza esperienze particolari, e ripetibili, per produrre enunciati generali; il processo giudiziario invece utilizza conoscenze generali (le leggi scientifiche o massime di esperienza) per produrre enunciati particolari relativi a fatti irripetibili. E’ praticamente impossibile perciò disporre di una legge, anche solo statistica, che sia incondizionatamente e integralmente applicabile al caso singolo, perché nessuna legge, in quanto enunciato generale, può tener conto di tutti i fattori complementari e di tutti i fattori di disturbo, che sempre distinguono il caso particolare e concreto, oggetto dell’accertamento giudiziale, dalla classe di casi cui la legge è riferibile. Sicché la spiegazione del caso concreto, ove risulti effettivamente possibile, deriverà sempre dall’incrocio tra diverse leggi, anche statistiche, riferibili ciascuna a suoi particolari aspetti peculiari.
La legge statistica sull’efficacia di un determinato trattamento sanitario, ad esempio, farà riferimento pur sempre a una “popolazione” definibile solo genericamente; e quindi, per poter ottenere informazioni ulteriori adeguate a peculiari aspetti del caso singolo in essa non considerati, potrà risultare necessario fare riferimento ad altre leggi statistiche, che quelle peculiarità prendano in considerazione, anche se in contesti e prospettive in parte diversi.

Sicché l’accertamento del nesso di causalità tra condotta ed evento non ha regole diverse da quelle di ogni altro accertamento giudiziale; e può fondarsi anche sul coordinamento di una pluralità di indizi che valutati singolarmente sarebbero insufficienti a garantire conclusioni attendibili. E se leggi probabilistiche sono abitualmente poste a fondamento dei più disparati accertamenti giudiziali, come avviene ad esempio nelle indagini dattiloscopiche o balistiche o genetiche, non v’è ragione alcuna per cui solo per l’accertamento del nesso di causalità debba esigersi una misurazione in termini numerici del grado di probabilità.

L’accertamento del nesso di causalità è sempre l’applicazione di un complesso di regole di esperienza e scientifiche, proprie della cultura di quel momento storico, che ci consente, come pure è stato ribadito dalle Sezioni unite anche penali, di affermare, per esempio, che c’è nesso di causalità tra l’esposizione all’amianto e il mesotelioma pleurico, anche se i medici non sanno neppure il perché avviene questo. E le leggi scientifiche anche probabilistiche si distinguono dalle leggi statistiche e dalle generalizzazioni empiriche non solo perché danno conto del ripetersi di un fenomeno, ma perché ci spiegano anche qual è la ragione del ripetersi di quel fenomeno, ricollegandosi a un sistema di leggi e di conoscenze già sperimentate, che sono in grado di completare il quadro esplicativo.

Pur riconoscendo che causa è solo la condizione necessaria dell’evento, dunque, siamo in grado di affermare il nesso di causalità anche quando non disponiamo di una legge di copertura universale, perché possiamo combinare diversi criteri di giudizio.

Molto spesso peraltro viene presentato in termini di causalità quello che è un problema di colpa, come è avvenuto per la vicenda del sangue infetto da HIV.

Facciamo un esempio ancora: il medico che dimetta prematuramente un paziente, senza compiere tutti gli accertamenti diagnostici del caso, risponde certamente per un’azione, non per un’omissione, perché dal punto di vista del nesso di causalità rileva non l’omesso accertamento, bensì la dimissione.
Se è così, se il nesso di causalità è indiscusso, perché è chiaro che quel paziente è deceduto in quanto è stato dimesso prematuramente, la violazione della regola cautelare che avrebbe imposto al medico un previo accertamento diagnostico ulteriore viene in rilievo solo ai fini della colpa, non del nesso di causalità. E la maggioranza della dottrina penalistica ritiene che, mentre per il nesso di causalità si deve dimostrare che senza il comportamento incriminato non ci sarebbe stato l’effetto indesiderato, con riferimento alla colpa invece è sufficiente provare che l’evento indesiderato rientri nell’ambito di prevenzione della norma cautelare violata. Se l’effetto indesiderato verificatosi è uno di quegli effetti che la norma cautelare era destinata a prevenire, la colpa c’è, anche quando non sia dimostrabile che il rispetto della regola cautelare avrebbe certamente impedito l’effetto indesiderato.

Anche quando non si abbia la prova certa che la condotta diligente avrebbe evitato l’evento, dunque, è sufficiente la prova che una tale condotta avrebbe ridotto significativamente il rischio dell’evento lesivo. Se c’è la violazione di una norma cautelare, se c’è un aumento del rischio, se il rischio innescato è proprio quello che la norma cautelare voleva prevenire, non è necessario provare che l’evento non si sarebbe verificato se il medico avesse rispettato quella norma cautelare. Al contrario, per escludere la responsabilità, occorrerebbe provare che il rispetto di quella norma non avrebbe certamente inciso sull’effetto lesivo, che l’evento si sarebbe verificato nonostante la condotta diligente. Ma se l’evento verificatosi rientra nel range delle evenienze che la norma cautelare voleva prevenire, la colpa c’è, posto che ci sia il nesso di causalità.
Nondimeno alcuni autori sostengono che sia necessaria una prova equivalente a quella del nesso di causalità anche nel rapporto tra la violazione della norma cautelare ed effetto indesiderato. Ed è questo un ulteriore motivo d’incertezza.

Infine è difficile talora distinguere tra la colpa, quale violazione della norma cautelare, che è una norma tecnica da rispettare solo in funzione della prevenzione di un risultato indesiderato, e l’omissione, quale violazione di una norma prescrittiva, che esige un rispetto incondizionato.
Ma a mio avviso questa distinzione è sempre possibile.
Faccio a questo proposito un ultimo esempio, prima di concludere.
Poniamo che un paziente muoia per l’indebita assenza del sanitario. Se noi accertiamo che la presenza del sanitario nel nosocomio avrebbe consentito la somministrazione di una cura, il rispetto di un protocollo che avrebbe salvato la vita del paziente, non c’è dubbio che abbiamo la prova di un nesso di causalità, perché abbiamo la prova di una “condicio sine qua non” dell’evento indesiderato. Se non ci fosse stato quel comportamento omissivo, il paziente sarebbe salvo.

Tuttavia il nesso di causalità non basta per affermare la responsabilità penale del medico. Occorre accertarne anche la colpa. E ai fini della colpa, dobbiamo sapere perché quel medico era assente. Infatti quel medico poteva essere stato assente perché, ad esempio, aveva dovuto affrontare una serie innumerevole e imprevedibile di emergenze durante la notte, che ne avevano fiaccato la resistenza e gli

Edouard Manet – Bar aux Folies Bergère (part.)

avevano provocato un colpo di sonno. E in questo caso, benché ci sia il nesso di causalità, noi potremmo escludere la colpa.
Diversamente vi sarebbe colpa, se il sonno del medico fosse riconducibile all’assunzione di alcool, se il medico si fosse addormentato per aver bevuto.
E allora, posto che il paziente è morto per la mancata somministrazione della prestazione dovuta (nesso di causalità); posto che il medico si è addormentato dopo aver bevuto; ai fini della colpa, non dobbiamo accertare se la quantità di alcool assunta fosse tale da determinarne necessariamente il sonno. E’ sufficiente la dimostrazione, la prova che c’è stata la violazione della regola cautelare (non assumere alcol durante il turno di guardia); non dobbiamo provare che, se non avesse bevuto, il medico non si sarebbe addormentato, perché si discute appunto di colpa e non di nesso di causalità.

Ho concluso; e spero di non aver aggravato il senso di incertezza dei medici che mi hanno ascoltato in Accademia e che mi leggono su questo blog.

Leggendo alcune sentenze e alcuni scritti giuridici, per preparare questa relazione, mi è venuta in mente la scena di quei medici medioevali che, raccolti intorno al capezzale dell’ammalato, nascondevano dietro parole incomprensibili la propria ignoranza, la propria incapacità di spiegare la realtà. E questa è un po’ l’impressione che ho avuto leggendo quel che scrivono i giuristi sulla responsabilità professionale dei medici: l’uso di paroloni che dissimulano l’incapacità di spiegare.

Secondo un mio amico medico, l’umanità è sopravvissuta nonostante i medici. Io mi sento di dover ringraziare quei medici che ancora si impegnano, nonostante i giuristi.

Giudice Aniello Nappi

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3 commenti

  1. Amico Nello, grazie di cuore. La saggezza della Giurisprudenza, interpretata obiettivamente da una profonda esperienza, quale è la tua, “rende giustizia” a molte situazioni controverse per il non addetto.
    Con il giuramento di Ippocrate si possono percorrere strade maestre e quindi sicure anche nel terzo millennio.
    Buon lavoro: la tua testimonianza così serena e sapiente deve far dormire sonni tranquilli “a chi è giusto”.
    Con affetto e stima, daddy.

  2. Cercavo su Google la citazione di un articolo del cons. Nappi, forse su Cassazione penale, forse nel 2000 o qualche anno dopo (su consiglio del mio amico Gianfranco Iadecola). L’articolo dovrebbe riguardare la colpa medica ed in particolare la speciale difficoltà. Mi sono così imbattuto nella conferenza tenuta ai Lincei. L’ho trovata di estremo interesse soprattutto per la sincerità dell’Autore circa l’incertezza sia del diritto codificato sia del diritto ghiurisprudenziale. Mi piacerebbe contattare il Consigliere per capire meglio, in ordine alla colpa, se egli sposi o meno la teoria dell’aumento del rischio. Mi sembra di aver capito che egli ha una posizione tendente ad ampliare sulla colpa ed invece a restringere sui criteri di accertamento del nesso causale, ridimensionando la portata del “più probabile che non” in base all’ubiquitarietà del principio condizionalistico.
    Mi chiamo Angelo Fiori, ho diretto per molti anni l’Istituto di Medicina Legale della Facoltà Medica A. Gemelli di Roma (ora sono pensionato) ed ho scritto tre volumi sulla medicina legale della responsabilità medica, pubblicati da Giuffrè, il primo nel 1999 l’ultimo nel 2009.

  3. Tramite me, il Giudice Aniello Nappi risponde:
    “non condivido la teoria dell’aumento del rischio”.
    Il Prof. Fiori troverà un’illustrazione dettagliata della mia posizione sul tema nel seguente volume:
    Aniello Nappi,
    Manuale di diritto penale. Parte generale
    Milano : Giuffrè, 2010.

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